Giuseppe De Filippi: un liberale al telegiornale

Giuseppe De Filippi: un liberale al telegiornale

A colloquio con il vicedirettore del Tg5. Con lui abbiamo parlato della situazione politica e dello stato della nostra informazione. Sulla tv dice: “L’errore è quello di chiudersi nella bolla, inseguendo i social”.

“Oggi l’accesso alle fonti è molto semplificato. Ma serve una forte capacità analitica: proprio perché il materiale disponibile è tantissimo, è necessaria una bussola che ti faccia capire le cose, al di là di tutti i tentativi di confondere le acque, che fanno parte del gioco della comunicazione e dello scontro fra i partiti.” Per Giuseppe De Filippi – vicedirettore del Tg5 – il giornalismo è utile per non farci perdere l’orientamento. Troppa informazione vuol dire spesso nessuna informazione: serve qualcuno che spieghi, analizzi e metta ordine in questa grande babele. Intervistato per I Liberali, De Filippi ci ha fatto da bussola nel labirinto della politica.

Com’è cambiato il modo di osservare e raccontare la politica rispetto a quando ha iniziato a fare il giornalista?

Ci sono cambiamenti di vario tipo; anche per esempio di tipo tecnico. Oggi abbiamo molti più strumenti per vedere gli incontri politici. C’è molta più documentazione sia in audio che in video di tutto quello che succede. Prima erano necessarie troupe televisive, che necessariamente avevano una minore mobilità rispetto a quella che si ha adesso con un semplice telefonino. Per un telegiornale, questo significa anche misurarsi con la fine di un (quasi) monopolio. Un tempo il pastone politico era appannaggio della televisione. Oggi basta un clic, tanto più che spesso i politici mettono questo materiale a disposizione di tutti.

È cambiata anche la politica?

È cambiata la strutturazione del sistema politico. Quando ho cominciato io, nel 1987, eravamo in pieno sistema proporzionale, c’era ancora il pentapartito. Oggi non ci sono più schemi fondati su maggioranza e opposizione; la situazione è più flessibile. Raccontare la politica senza gli schemi pronti di un tempo è più difficile e richiede uno sforzo maggiore. Non farei una critica astratta a questo modello: è il modello che abbiamo. Non avrebbe senso rimpiangere il passato.

Disintermediazione, social, politica pop. Sembrava un modo per avvicinare il paese legale e il paese reale. Invece poi si va alle elezioni – com’è accaduto di recente – e cresce l’astensionismo. Qualcosa è andato storto?

È sempre difficile ragionare sull’astensionismo. Chi non va a votare sa benissimo che sta esprimendo una posizione politica. Ed è abbastanza normale, soprattutto in elezioni amministrative. Alle politiche, in Italia, il voto è rimasto piuttosto alto. Nello specifico, che cosa offriva quel voto amministrativo? Pensiamo al caso romano. A Roma l’elettorato era stato chiamato a provare varie opzioni, e le ha provate tutte: il grande campo del centrosinistra allargato ai moderati, con Rutelli e Veltroni; ha provato la destra di un ex esponente missino con Alemanno; una sinistra non di partito, non allineata e meno legata a certe storie di potere, con Marino; infine ha provato l’antipolitica con Virginia Raggi. Stavolta c’erano vari candidati che evidentemente non hanno scaldato troppo l’elettorato e che hanno spinto al voto soprattutto chi era particolarmente motivato.

Vale anche per Milano o per Torino?

Direi di sì. A Milano si è consolidato un modello vincente, anche se non nuovissimo. A Torino hanno fatto la stessa esperienza di Roma: hanno provato varie cose; a suo tempo hanno dato uno schiaffone al loro potere tradizionale che gira intorno al Pd. Gli elettori ogni tanto si prendono una licenza per lanciare un segnale; poi magari tornano sui propri passi.

L’impressione è che un certo tipo di televisione abbia, nel corso del tempo, sovrarappresentato certe posizioni oltranziste o eccentriche, per interesse politico o per esigenze di audience (prima i no euro, adesso i no vax). Il paese è più ragionevole rispetto alla descrizione che se ne fa?

Questa cosa si percepisce anche sui social. Leggendoli, uno è portato a pensare che l’Italia sia un posto assurdo, popolato da pazzoidi anti-tutto. E poi ci si accorge che si tratta di bolle: grandi, ma pur sempre bolle, ambiti chiusi. Magari toccano un milione di individui, ma non cambiano i risultati elettorali. Tutto ciò si è trasferito in televisione: i talk sono un po’ tutti uguali, vanno sulla stessa bolla. Se vai a sommare gli ascolti, si tratta di un milione e mezzo totale di persone, che sono dentro questo dibattito impazzito.

La televisione segue i social?

L’errore della televisione è quello di non riuscire ad essere più aperta rispetto al mondo dei social; un mondo in cui ognuno vuole parlare con i propri simili, e parla con gli opposti solo per mandarli a quel paese e bloccarli. E non serve neanche ad avere più audience: se l’obiettivo fosse questo, non bisognerebbe chiudersi nella bolla, non bisognerebbe andare a cercare gli estremisti, come invece si fa. L’audience cresce in un ambito predefinito, che non è poi così grande. Probabilmente la domanda di informazione politica è ben più ampia. Ma non trova un’offerta adeguata, anche perché la tv si richiude in queste conventicole.

Nelle grandi realtà urbane il sovranismo non sfonda o comunque non sfonda più. A suo avviso, è destinato ad essere un fenomeno magari elettoralmente consistente ma strutturalmente di provincia oppure può rialzare la testa?

Stiamo parlando di una posizione politica abbastanza nuova, che forse neanche i diretti interessati saprebbero definire. Sono movimenti privi di ideologia o che la loro ideologia la devono nascondere, come fa la Meloni. Essendone privi o essendosene privati per ragioni di agibilità politica, finiscono per avere un certo opportunismo, che li porta a pescare tra le cose più semplici. C’è una frase famosa: “Il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie”. Oggi questo si coniuga come sovranismo. Dire “prima gli italiani” o “non vendiamo le nostre imprese all’estero” è facile, ma quando trasformi questi slogan in formule politiche concrete, dici “esco dall’euro”, e poi ovviamente non esci: sono cose che fanno ridere.

È un problema di cultura politica?

Il punto è che mentre la visione laburista o quella liberale hanno una lunga storia, si prestano a tante applicazioni e forniscono degli strumenti di lavoro politico, il sovranismo porta in vicoli ciechi. In epoche più tragiche portava alle guerre; nell’epoca attuale porta a un cul-de-sac da cui non si sa come uscire. È il dramma che sta vivendo Salvini in questi giorni, perché si accorge che la sua politica non è praticabile: è una politica senza respiro.

Giudica fattibili i tentativi di Forza Italia di staccarsi dal resto della destra, nella prospettiva di una ricomposizione del quadro politico?

Se Salvini va avanti allineando la Lega sulle posizioni antieuropee di Orbán o del governo polacco, è inevitabile. Quelli di Forza Italia non sono portati al frazionismo e alle scissioni, ma se questa è la situazione, ci arriveranno. D’altra parte, a breve si chiederà al parlamento italiano – questo o il prossimo – di esprimersi su un’ulteriore possibilità Draghi (o su un programma Draghi senza Draghi, ma con qualcuno che gli somigli). A quel punto, dovranno prendere posizione.

A questo proposito, qual è la prospettiva più credibile in questo rebus del Quirinale?

È molto difficile dirlo adesso. Mi sembra che si stia lavorando su tre binari. Uno è quello dei candidati di schieramento: ad esempio, Berlusconi da una parte e Gentiloni dall’altra. Poi ci sono dei candidati di mediazione, che vanno un po’ oltre il loro campo storico: mi viene in mente Casini, come proposta del centrodestra, mentre Cartabia potrebbe essere la proposta del centrosinistra. E poi c’è Draghi, che se va al Quirinale ci va con un accordo in stile Ciampi.

Qualcuno parla della trasformazione del nostro sistema in un semipresidenzialismo…

Non darei tanto credito a questa discussione sul semipresidenzialismo, che mi sembra un po’ campata in aria. Quello che voleva dire Giorgetti (e poi Brunetta) è che si può anche interpretare la presidenza in modo più interventista, quindi con lo stile di Giorgio Napolitano, per esempio; e quindi avere un certo tipo di influenza sulla vita parlamentare. È quello che viene descritto come il potere a fisarmonica: si allarga quando quello del parlamento cala e si restringe quando quello del parlamento aumenta. Ma la cosa importante è avere un parlamento che stia in piedi, che esprima una linea politica accettabile.

Il risultato di Azione a Roma può avere una proiezione nazionale?

Se fossi un consigliere di Calenda, gli suggerirei di non enfatizzare il risultato romano. Intanto perché c’era il concorso di Renzi: i primi due eletti sono esponenti di Italia Viva, che quindi si è impegnata a far arrivare dei voti. E poi perché ci sono delle situazioni specifiche: la concorrenza di un esponente molto serio, ma certo non travolgente, come Gualtieri e di un candidato debolissimo come Michetti. Quindi, il 18% può impressionare in termini percentuali, ma ciò non vuol dire che alle politiche sarà replicato.

Azione farebbe meglio ad accentuare l’aspetto civico, proponendosi come partito pigliatutto (pragmatismo post-ideologico, né destra né sinistra, attenzione alle policy, con qualche sfumatura di antipolitica tecnocratica) oppure a radicarsi in un’area ben definita – ma fatalmente con una capacità di espansione forse non amplissima – valorizzando un’identità di tipo liberaldemocratico? 

A mio giudizio, è sbagliato puntare tutto sulla capacità tecnica, sulla managerialità politica. Quello è un terreno dove non si è mai in una posizione acquisita davanti agli altri. Calenda è bravo, conosce bene il modo di funzionare della macchina amministrativa e anche l’effetto dei provvedimenti sul mondo delle aziende: un esempio è “Industria 4.0”. Ma quel tipo di capacità è soggetto a concorrenza: non è necessario essere dei premi Nobel; basta studiare un po’. Quindi non si crea quella forma di esclusività che invece si crea con il possesso – diciamo così – di un campo politico legato a un’ideologia.

Servono identità forti, anche in un’epoca come questa?

Con l’ideologia, con i simboli, con la tradizione non solo si offre una strada agli elettori – un riconoscimento delle proprie preferenze dentro un contenitore politico – ma si delimita pure quello spazio. Per questo, consiglierei a Calenda di darsi una veste politicamente caratterizzata, in senso liberale; ma farlo in modo deciso, non solo con qualche slogan. Ma ciò significherebbe anche aprire un tavolo con gli altri che già gravitano nella stessa area (Della Vedova, Bonino, Renzi…). Oggi Calenda ha un carico di fiducia da parte degli elettori, ma non deve pensare di averla perché è bravo e intelligente. Non basta dire: io so scrivere le leggi. Bisogna anche saper scaldare i cuori.

Intervista a cura di Saro Freni