Io, liberale contro ogni dogmatismo

Io, liberale contro ogni dogmatismo

Conversazione a tutto campo con Mauro Antonetti, storico dirigente del Pli. La militanza giovanile, la formazione laica e illuminista, l’iscrizione al partito. E un’analisi amara sulla politica di oggi: “Sono venuti a mancare principi di riferimento solidi”.

“Potrei apparire supponente, però secondo me nei partiti di oggi non ci sono riferimenti di contenuto o di metodo. In alcuni casi, ci si trova di fronte a gruppi che somigliano a delle bande o se vogliamo a società esposte a scalate. Manca il rispetto delle idee diverse, che serve anche a verificare la solidità delle proprie.”

Non è supponente, Mauro Antonetti: è realista, e lo è stato per tutta la durata della nostra conversazione. Ingegnere di formazione, ha ricoperto importanti incarichi all’interno del Pli, partito nel quale ha militato sin da giovane. “Stare in quel partito mi ha insegnato il valore della discussione. Un fattore essenziale. In politica bisogna mettersi in gioco, confrontarsi e anche rivedere le proprie posizioni. Tutto questo, sempre nel quadro di certi principi.” Con lui abbiamo fatto un’intervista a tutto campo, sulla politica di ieri e di oggi.

Quando sei diventato liberale?

La mia adesione al liberalismo è stata di natura, diciamo così, ideologica. Oggi sembra una parolaccia, ed è respinta da più parti. Io non la intendo nel senso di un sistema rigido, ma nel senso di una convinzione filosofica. Ho sempre avuto attenzione per il problema della conoscenza e rimasi colpito dall’impostazione di David Hume. Lo considero la mia stella polare, sia pure in senso critico e revisionista. Parallelamente, ho elaborato la mia propensione verso il metodo scientifico. Pensiero critico, attenzione ai fatti, verifica logica: ecco ciò che mi ha portato verso il liberalismo.

A che età hai cominciato a far politica?

La mia prima formazione politica è avvenuta al liceo. Poi ho proseguito all’università: prima negli organi rappresentativi degli studenti – che erano ormai in agonia – e successivamente nei movimenti studenteschi di quegli anni. Studiavo ingegneria alla Sapienza. In quella fase, mi legai ad altri amici che condividevano la mia impostazione liberale. Non mi riconoscevo né nei variegati movimenti di sinistra più o meno marxista né nei movimenti di destra di matrice cattolico integralista o neofascista: tanto più che queste due aree di opposti estremismi erano spesso portate alla violenza e alla sopraffazione. Dopodiché, passai ad un impegno sempre più concreto all’interno della Gioventù liberale e di conseguenza nel partito.

Che cosa ti ha spinto a iscriverti al partito?

In parte, una iniziale curiosità: aderii al Pli assieme agli amici con cui avevo fatto politica universitaria. Col tempo, mi impegnai sempre di più. I partiti di allora erano caratterizzati da grande partecipazione. Si poteva apprendere dalle persone più esperte. Avevano anche dei difetti: in particolare, la tendenza alla burocratizzazione. Il Pli non era molto burocratizzato, se paragonato alle altre forze politiche, ma in una certa fase Malagodi provò a dargli una struttura più solida.

Come si è sviluppata la tua carriera all’interno del Pli?

Sono stato segretario del partito a Roma per quattordici anni, responsabile nazionale per gli enti locali e anche membro della direzione nazionale. Sul piano istituzionale ho ricoperto vari incarichi: in specie sono stato consigliere comunale, sempre a Roma, durante gli anni ottanta.

Com’eri collocato ideologicamente all’interno del partito?

Ero nella corrente di Rinnovamento (Altissimo, Zanone…), di sinistra. Mi sono sempre caratterizzato per posizioni di tipo antimonopolistico ed antistatalista. Davo molta attenzione ai diritti individuali, contro ogni forma di autoritarismo. Sono sempre stato molto anticlericale (in opposizione radicale al potere temporale delle religioni organizzate), in maniera dichiarata. Repubblica Romana, venti settembre… questi erano i miei punti di riferimento. Per un certo periodo ho avuto anche la doppia tessera radicale, ma senza troppa convinzione: c’erano alcune cose dei radicali che mi piacevano meno, compreso un certo opportunismo. Però Pannella era un personaggio molto preparato, era uno che studiava: niente a che vedere con l’incompetenza della classe politica attuale. Sono sempre stato molto attento all’efficienza, pur senza una connotazione tecnocratica. Ho sempre creduto che bisognasse fare i conti con la complessità delle cose.

Che bilancio puoi trarre da quella esperienza politica, anche in rapporto con ciò che è avvenuto in seguito?

Formativa e utile. Da una parte, metteva alla prova le capacità di analisi e di progettazione. Dall’altra parte, ti consentiva di raggiungere qualche obiettivo, anche se modesto, se non altro di principio e di testimonianza. È stata un’esperienza positiva anche su un piano relazionale, persino quando i rapporti erano conflittuali. Nel Pli non esisteva una rigida disciplina di partito: le posizioni erano frutto di una convinzione, che giungeva anche dopo un confronto.

Dopo la fine del partito come ti sei orientato politicamente?

Diciamo che in quel periodo – coinciso con la fine del partito – avevo già deciso di impegnarmi maggiormente sotto il profilo professionale. Però ho continuato ad occuparmi di politica: andavo ad alcuni incontri, davo una mano e non ho smesso di coltivare rapporti con i vecchi amici che continuavano a fare politica attiva. Era anche un modo per scambiare delle idee. L’ultimo atto politico che ho fatto, quando ci furono le prime elezioni della seconda repubblica, fu quello di esprimermi in favore del centrodestra.

In che modo?

Organizzai una riunione, con dei vecchi amici. Discutemmo. L’orientamento fu di votare Forza Italia tappandosi il naso. Era un po’ troppo appoggiare gli ex comunisti o gli ex democristiani di sinistra. Non è che avessi particolare stima per Berlusconi; meno che mai per Fini o per Bossi. Però c’erano degli amici qualificati come Biondi, Martino, che erano coinvolti nell’operazione. Speravo potessero condizionare tutto il carrozzone in una direzione più liberale e che avessero il coraggio di farlo in modo organizzato. Fu una speranza mal riposta, perché questo non è accaduto.

Perché non è accaduto, a tuo giudizio? Per ragioni strutturali – ossia perché il bipolarismo non era adatto al nostro paese – o per limiti personali delle leadership e dei gruppi dirigenti?

Ci sono stati motivi strutturali, sicuramente. Dietro i due poli si stavano facendo strada dei riferimenti che in seguito hanno preso il sopravvento: dopo la fine della prima repubblica, si è verificato il riorganizzarsi degli interessi con altre logiche. Per un altro verso, in assenza di una vera forza politica strutturata, è emerso che i liberali non avevano leader qualificati. In alcuni casi si trattava di notabili locali, oppure di consiglieri del principe, non di leader politici. Anch’io mi prendo la mia parte di responsabilità.

C’è la necessità di tornare ad una visione più strutturata della politica?

Se osservi cosa accade in Germania, vedi che i giochi sono sulle tre grandi famiglie politiche: i liberali stanno riemergendo, così come i socialdemocratici. Non è una nostalgia dei vecchi partiti, ma la constatazione di una necessità: quella di avere un telaio interno ai sistemi politici, che sia robusto anche rispetto alle sollecitazioni esterne. Bisogna tornare ai fondamentali, recuperare certi valori. Tutto questo non lo fai senza un coinvolgimento politico e culturale e senza un supporto organizzativo.